Dipingere è come recitare" è l'intrigante paragone che dà il titolo allo spettacolo proposto da Fo al Teatro Era di Pontedera, un confronto che apre a molte più riflessioni di quanto chiunque si possa immaginare, spalanca l'abisso delle argomentazioni che l'artista è in grado di ordinare e coordinare all'interno di due ore di "conversazione" con il pubblico.Per prima cosa, infatti, ciò che Dario Fo sottolinea è la necessità da parte di un attore di sintonizzarsi sullo stesso battito del cuore del pubblico, accordando tali battiti sulla medesima nota e facendo in modo che il bisogno di andare nella stessa direzione diventi un obbligo, affinché la fusione delle due parti avvenga e si compia il miracolo del teatro. Respirare all'unisono. Abbattere la quarta parete. Una premessa che risulta fondamentale per chi fa satira, per chi attraverso essa mostra un punto di vista, un mondo non fatto di risate vuote e fini a se stesse ma di quelle che lasciano l'amaro sapore della verità. Ciò che è basilare è la moralità: "ma se non c'è la dimensione morale, se tu attraverso la satira non riesci a far capire il significato opposto delle banalità, dell'ovvio, dell'ipocrisia e soprattutto della violenza che ogni potere esprime e porta addosso ai minori, ebbene il tuo ridere è vuoto, è proprio lo sghignazzo ventrale e non quello dello stomaco e dei polmoni", questo lo disse Dario Fo qualche anno fa, e sul palco di Pontedera ne ripete la sostanza.
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Il punto di partenza è la pittura, un quadro dietro di lui, che parla più eloquentemente di quanto potrebbe farlo un libro: il "Quarto stato" di Pellizza da Volpedo. L'esaltazione degli ultimi, la marcia di coloro che non contano è ridipinto con i volti di tutti gli stranieri, magari immigrati, che lottano per ottenere permessi e ottengono solo promesse, chiedono aiuto e ottengono false speranze.
La pittura è espressiva quanto potrebbero esserlo le parole, è per questo che Dario Fo racconta di sé e di come, quando pensa ad una storia da narrare, spesso ricorra alla pittura: per rendere ancora più chiaro ciò che desidera far sapere, attraverso i colori, le forme, le linee. E poi viene tutto da sé, così come in teatro.
"Sottolineo che non si tratta di uno spettacolo, come si dice in gergo, 'stampato', ma dove il coinvolgimento del pubblico servirà per improvvisare, spezzare ritmi e inventare nuove soluzioni", ecco che si legge sul programma di sala, ecco quel che pensa Dario Fo, ecco che ci troviamo ad assistere ad un evento che chissà se mai si ripeterà uguale.
Di pittura non se parla più di tanto, ma tant'è, il pubblico è rapito dall'istrione che passa da momenti in cui con rabbia racconta la storia di un Italia che tira a campare, che non si ribella e che accetta che venga negato il pranzo ai bambini i cui genitori non hanno soldi per pagare la retta scolastica, a momenti in cui il suo famoso gramelot ci permette di spaziare dall'Inghilterra alla Toscana, attraversare fiabe arabe e ridere di fantasiosi aneddoti surreali.
Non importa se alla fine il titolo dello spettacolo non si ritrovava in esso, se di arte se n'è parlato poco, quello che conta è che Dario Fo ha spiegato il teatro.
Ha spiegato che non è possibile uscire dalla porta della struttura, dopo un suo spettacolo, esattamente come si era entrati. Qualcosa si è smosso nel pubblico che ha riso, si è arrabbiato e forse certe volte indignato. Ma non è rimasto impassibilmente indifferente, ha imparato qualcosa di fondamentale: il teatro, che è qui ed ora ed è una magia.