Allora Dario Fo, è lui l’erede? È Paolo Rossi il degno epigono per il testo «sacro» del suo teatro, quel Mistero Buffo rappresentato in tutto il mondo e che le è valso anche il Nobel?
«Senza inoltrarmi in gare o in assurde classifiche, riconosco che Paolo Rossi ha più di un asso a suo vantaggio. Intanto, pur se nato a Monfalcone, è milanese d’adozione. Un vantaggio linguistico e culturale che gli ha fatto trovare le giuste tonalità del grammelot, la parlata dialettale che ho reinventato seguendo echi onomatopeici, intrecciando gerghi diversi, antichi idiomi».La sfida non è da poco. Difatti Paolo Rossi, dal 4 maggio allo Strehler con Mistero Buffo, ha voluto mettere il sottotitolo «P.S.: nell’umile versione pop», che ironicamente prende le distanze dall’originale...
«Una frase scherzosa. Pop come popolare. Capace quindi di trovar voce ovunque, in ogni latitudine e cultura. Mistero Buffo è andato in scena dalla Cina all’India all’Africa. Per restare dalle nostre parti, ho visto dei fantastici interpreti siciliani o napoletani».
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Ma per noi italiani, è difficile prescindere dal modello Fo. La sua gestualità ha fatto scuola, ha segnato la memoria teatrale di generazioni.
«In questo Paolo è straordinario. Lui è un mimo di razza. Me ne accorsi subito, tanti anni fa, quando debuttò in un mio spettacolo, l’Histoire du Soldat di Stravinsky, che misi in scena al Lirico per la Scala nel 1978».
Com’era il Rossi di allora?
«Un ragazzo dall’aria un po’ strampalata che sprizzava un’energia straordinaria. Un apprendista comico di innato talento. Tra noi è scattata un’immediata sintonia. Avendo a che fare con un gruppo di giovani, per allenarli al gioco del teatro, chiedevo a ciascuno di recitare la parte dell’altro. Così lui diceva che io facevo recitare i mimi e trasformavo i mimi in attori. Spero fosse un complimento... ».
In ogni caso la fisicità di Rossi è innegabile.
«Di più. Quasi miracolosa. Non ho visto l’intero spettacolo ma solo qualche "assaggio" delle prove del suo Mistero Buffo. E mi ha colpito la sua capacità di trasformarsi. Lui, piccoletto com’è, sulla scena cresce, cresce... Si ingigantisce a vista sotto gli occhi dello spettatore».
Mistero Buffo è una raccolta sterminata di testi. Di recente la Comédie Française l’ha fatto entrare nel repertorio in integrale, diviso in due serate. La versione pop di Rossi è ovviamente contenuta in tempi più tradizionali.
«Ma molto rispettosa. Il testo è rispettato quasi al completo. Qualche battuta aggiunta sull’attualità è necessaria e doverosa. Ho sempre fatto così anch’io. È la natura di Mistero Buffo».
Tra i capisaldi il capitolo su Bonifacio VII. Rispetto al suo, come lo fa Rossi?
«Anche quello va al passo con i tempi. Il mio Papa a un certo punto si ispirava a Wojtyla, atletico, virile. Un superman con la tiara. Rossi farà i conti con il Papa di adesso. Molto diverso dal precedente. L’importante è non calcare la mano, non fare caricature. Le allusioni vanno fatte con garbo, con spirito. Non ce bisogno di calcare la mano. In ogni caso Cristo lo prenderà a pedate».
Sarà in platea alla prima?
«Purtroppo no. In quei giorni sarò in Spagna, a Pamplona, per interpretare Rosa fresca aulentissima di Ciullo d’Alcamo. Uno dei primi testi del teatro comico-grottesco. Un dialogo sull’amor carnale che diventa poesia. Non a caso l’ho scelto come primo capitolo del Mistero Buffo».
Giuseppina Manin