Il racconto del Premio Nobel

Per l’assegnazione del Nobel arrivai a Stoccolma, come da programma, qualche giorno prima. Ad accogliermi all’aeroporto c’erano anche alcuni accademici della giuria, premurosi e gentili: "Abbiamo provato molto piacere nello sceglierla… - mi dissero- Lo sa che quando abbiamo fatto il suo nome davanti ai giornalisti e alla gente è esploso un grande applauso?! Lei è molto amato, in Scandinavia.".

Arrivammo al Grand Hotel, nel centro di Stoccolma, e fui alloggiato nella suite all’ultimo piano, al settimo mi pare. Era la suite dei Nobel per la Letteratura, c’era persino una targa che lo indicava. Ci si montava con un ascensore speciale, riservato, del quale mi consegnarono la chiave. Lì un cameriere stava aspettandoci con una bottiglia di champagne e al nostro ingresso la stappò. "Cento di questi giorni!" dissi io, già ubriaco di commozione. Uno degli accademici commentò "Cento sarebbero un po’ troppi… facciamo due o tre! È già abbastanza!". Quindi mi fu annunciato l’arrivo del maestro di cerimonia. Mi immaginavo il solito incaricato in livrea, invece mi apparve un signore affabile e alla mano, col compito di accompagnarmi nel labirinto degli impegni. Quando mi illustrò il programma: scoprii che avrei potuto godere di ben poco tempo per il riposo.

Il giorno dopo, dunque, ci fu il primo incontro all’università, con circa tremila studenti. Al mio ingresso la banda universitaria intonò la marcia di una mia commedia per anni rappresentata in Svezia, Ma che aspettate a batterci le mani, cambiandola poco dopo nell’Inno di Mameli. E quando dei ragazzi, evidentemente italiani, issarono una selva di bandiere tricolore, mi venne pure il magone, tanto che per bloccare i lucciconi, mi sferrai una gran pedata sulla caviglia. Zoppicai per quasi tutta la giornata.

Tornati al Grand Hotel, mi addormentai, quasi svenuto per la stanchezza. Ma ecco che di lì a poco l’appartamento si illuminò di piccole luci contrappuntate da un canto di ragazze. Scattai seduto sul letto: "Che è?".

Nella stanza, una dietro l’altra, stavano entrando delle belle figliole completamente vestite di bianco, e in capo calzavano candeline accese. Si sistemarono intorno al mio letto, cantando con voce dolce e intonata. Riconobbi la melodia "a Santa Lucia, pur’anco i pesci fanno all’amore..."… E mi venne in mente che quello era il rito della notte più lunga dell’anno. Poi con la stessa grazia, le fanciulle lentamente uscirono, quasi sparendo nel buio.

Anche per il giorno seguente la tabella di marcia era forsennata. Fui accompagnato al leggendario Dramaten, il teatro di Stoccolma. Gli artisti svedesi mi avevano chiesto di offrir loro una lezione. Mentre il pubblico applaudiva entusiasta, quasi nascosto dietro una colonna in un palco, vidi Ingmar Bergman che rideva. Sollevai un braccio in segno di saluto: sapevo quanto fosse schivo e ritroso tant’è che mi meravigliò il suo rispondermi applaudendo. Fu una grande emozione scoprire che uno dei più importanti registi al mondo fosse venuto a onorarmi. Quel giorno terminò con il saluto agli accademici nella loro sede.

L’appuntamento più importante, prologo alla consegna del premio, era l’esibizione con discorso davanti agli accademici, agli altri Nobel, nonché a un numero straripante di giornalisti. Io scelsi di recitare un’autobiografia illustrata, in italiano, con grammelot in varie lingue e gestualità conseguenti. Inoltre ad ogni invitato, erano più di 500, sarebbe stata offerta una copia illustrata del lungo monologo, tradotto in simultanea da Anna Barsotti, la bravissima e bella moglie del mio traduttore in Scandinavia. Quei disegni erano un mio dono alla regina di Svezia ma momentaneamente mi servivano per la mia esibizione.

La platea, abituata normalmente ad assistere al rito silenziosa e compassata, dopo un primo sconcerto, stette al gioco divertendosi e, siccome gli spettatori ridevano e applaudivano fuori tempo, li pregai di ridere e applaudire solo a mio comando: il lazzo, paradossale, li divertì oltremodo.

Ma il giorno clou, quello della consegna dei premi, era fissato per l’indomani. La mattina tutti noi vincitori del Nobel fummo riuniti in un salone dove era stato segnato il perimetro del palcoscenico della premiazione. A dirigere le prove c’era una specie di mossiere che ci indicava le entrate e gli inchini alla volta del pubblico, degli accademici e della famiglia reale di Svezia; l’ultimo inchino veniva rivolto al re che consegnava il premio: la laurea con un cofanetto contenente una grande medaglia d’oro.

Ma molti dei laureandi incespicavano e così il mossiere, visto che ero mimo e attore, mi invitò ad aiutarlo. Io radunai i miei colleghi e - unò dué, unò dué - mostrai la sequenza delle posture e come eseguirle con souplesse. Finì che solo il Nobel cinese continuava a inciampare. Subito appresso venne il momento della posa per la fotografia di gruppo.

La consegna dei premi era fissata al Concert Hall, alle 16, un grande auditorium con l’orchestra, che per ogni premiato eseguiva un brano diverso. Io vi arrivai nella limousine nera messa a disposizione dall’Accademia, col mio bel frac, dono di Ferrè, uno dei più geniali stilisti italiani, purtroppo mancato da qualche mese. Per fortuna qualche ora prima della cerimonia era arrivata Franca, che mi aveva aiutato a indossare quell’abito per me paradossale. Anni prima avevo recitato in una farsa dal titolo L’uomo nudo e l’uomo in frac, una satira degli aristocratici e l’uomo in frac ero io. "Non fare come in scena - fu l’avvertimento di Franca - Non è una farsa. Evita di sembrare un pinguino o un cameriere.". Non so se ci sia riuscito, ma risate non ne ho sentite.

Quando il mio nome fu annunciato, badai a posizionarmi rispettando i segni sul tappeto azzurro. Ricordo il sorriso del re Gustavo, il peso della medaglia e che nonostante tutte le prove, riuscii comunque a rompere il protocollo ,passando da una mano all’altra la medaglia per stringere la mano al re, come in un gioco di prestigio. E poi l’applauso, lo sguardo di Franca che aveva accanto Jacopo con mia nipote Mattea, e le espressioni orgogliose degli amici venuti a festeggiarmi.

Alla premiazione seguì la rituale cena al Municipio, alle 19 in punto. I Nobel erano seduti nella grande tavolata centrale con 99 coperti. A me avevano assegnato un posto accanto alla principessa Cristina, sorella del re, appassionata di archeologia, con la quale mi fu facile trovare un feeling. Alla mia sinistra, la principessa Vittoria, che i media dicevano colpita da anoressia; in verità mi sembrava tutt’altro che inappetente… si era gettata con voracità sulle portate, tanto che le offrii la metà del mio risotto e lei lo accettò.

Finita la cena i Nobel erano invitati a brindare con il re e la regina, uno alla volta, mentre gli altri commensali si davano alle danze in un apposito grande salone. Franca ed io pensavamo che fosse un saluto e via. Con nostra sorpresa invece, tanto il re che la regina ci trattennero, vollero sapere del nostro lavoro e dell’Italia, accennando perfino alla situazione politica di quel tempo. Il dialogo durò più del previsto. Lasciandoci, ci ripromettemmo di vederci ancora.
Quindi ci ritirammo in disparte attendendo, come vuole il rituale, che tutti i Nobel e le loro consorti ultimassero l’incontro, giacché allontanarsi non si poteva e oltretutto le uscite erano bloccate dal servizio di sicurezza.

Il maestro di cerimonia, che aveva intuito la nostra stanchezza, si avvicinò: "Seguitemi – disse - Il Nobel è uno splendido rito e di certo la maggiore delle onoreficienze al mondo, ma se lo si vive con eccessiva partecipazione ti può annientare.". Ci fece dunque passare per il corridoio che portava alle cucine. Transitammo fra stufe e tavoli ricolmi di piatti e stoviglie. I cuochi e i camerieri, alcuni evidentemente italiani, salutavano Franca e me con simpatia, ci acclamavano, alcuni battendo mestoli sulle pentole. A nostra volta frastornati, accennavamo a un saluto. Attraversammo un guardaroba con centinaia di cappotti, mantelli e pellicce. Afferrai un cappello da generale e me lo misi in capo. Franca me lo tolse di dosso: "Adesso non esagerare. Come arriviamo a casa, ti ammollo un sonnifero che ti farà dormire per almeno un paio di giorni. Cammina, che la festa è finalmente terminata.".


Fo Michelangelo: "Vado in scena col massimo" - La Repubblica - Firenze

Rassegna stampa:
La Repubblica - Firenze

Oggi e domani al Teatro Romano di Fiesole l´attesa prima nazionale della lezione spettacolo del Premio Nobel su vita e arte del genio

Fo Michelangelo: "Vado in scena col massimo"

Roberto Incerti

"Studio e amo la sua opera da quando ero ragazzo per cercare di capire la sua personalità"
"Dopo Caravaggio, Mantegna e Raffaello mi mancava solo lui il suo coraggio e la sua dignità"

Le sue parole sono immagini. Mostrano dipinti, colori, sculture, fanno vedere fanciulle descritte in una poesia. Gran giullare, meraviglioso attore, premio Nobel. Siamo stati al Teatro Romano di Fiesole a vedere la prova aperta della Lezione spettacolo sulla vita e sull´arte di Michelangelo Buonarroti. Lo spettacolo, in prima assoluta ed esclusiva per l´Italia, fa parte del programma dell´Estate fiorentina-Fi.Esta 2007 diretta dalla rockstar Piero Pelù (stasera e domani e ore 21.15 info 05559187, euro 25/20/15). Il recital è in collaborazione con l´Estate Fiesolana. Qualche biglietto ancora a disposizione.
Fo, camicia scura, pantaloni chiari è solo in scena, dietro di lui due megaschermi in cui compaiono circa 250 immagini: molti sono disegni dello stesso Nobel e rare opere di Michelangelo. La performance di Fo - oltre ad essere una creativa, atipica lezione di storia dell´arte - mette in luce, una volta di più, il talento affabulatorio dell´attore, la sua proverbiale capacità di essere allo stesso tempo colto e popolare, visionario e rigoroso, ironico e spietato.
Seduta in prima fila, quasi regista ombra dello spettacolo, c´è Franca Rame, a cui Fo si rivolge spesso per chiedere pareri, indicazioni. Buonarroti, la sua arte, la sua vita, le sue battaglie contro il potere diventano un gioco teatrale tragico e divertente. Fo sa farci vedere Michelangelo che quando s´arrabbiava faceva tremare.
Michelangelo e Fo hanno in comune la coerenza, la vocazione a schierarsi, quando occorre, contro il potere in tutte le sue forme. «Dopo avere dato vita a Caravaggio, Mantegna, Raffaello, ormai mi mancava solo Michelangelo, ovvero il massimo. Del Buonarroti non parlerò solo delle opere d´arte, ma descriverò episodi di vita. Paradossalmente infatti veniva considerato uno che dava i numeri. La sua ironia veniva fraintesa, presa per cattiveria. Il mio Michelangelo mostrerà un uomo che è stato il massimo del coraggio, della presa di posizione netta, decisa e coerente. La sua vita diventa una lezione di civiltà e di dimensione politica che altri forse non hanno avuto e non hanno. Lui ha rischiato la vita per essere coerente e presente nei momenti tragici della propria città. È stato perseguitato dal poter e più di altri. Ma è stato anche uno dei pochi che ha avuto il coraggio di piantare in asso il papa, di dialogare affinché non vincesse l´inciucio. Col suo comportamento ha dato una lezione ai governanti denunciando intrallazzi e mancanza di dignità».
Fo è un grande esperto di Michelangelo. «Questo spettacolo è il frutto del lavoro di una vita. Se non avessi fatto Architettura, se non avessi fatto studiato a Brera, se non fossi stato appassionato di storia dell´arte, non avrei mai potuto affrontare uno spettacolo su Michelangelo. Ormai mi mancava solo lui. Conosco dunque Michelangelo fin da quando ero ragazzo, ma ancora oggi lo studio, per cercare di capire in maniera più approfondita la sua personalità. Lo spettacolo si dovrebbe poter vedere anche in tv, su Raitre». Fo si entusiasma parlando del passato artistico di Firenze: «Per raccogliere quello che Firenze ha prodotto nel mondo dell´arte e della cultura nel ‘400 e nel ‘500, non basterebbe il museo più grande del mondo. Siamo di fronte ad un livello mai raggiunto in una civiltà. Con la mia lezione-spettacolo intendo rivolgere uno sguardo alla Storia, a quel grande passato senza il quale rischieremmo di perderci nella volgarità, nell´inutilità».
Con Fo non si può certo trascurare l´attualità, il momento politico attuale. Eco dunque un parere sul Veltroni e sul nuovo Partito Democratico: «Ho grande stima per Veltroni e sono sicuro che lui, se avrà un appoggio, come mi pare che sia, da parte della base riuscirà a far passare un concetto ed un atteggiamento alto della politica che non sono di questo momento. Mi auguro che Veltroni riesca a far passare un concetto ed un atteggiamento alto della politica. Andrò anche a votare alle primarie ma per adesso sono confuso».
(30 agosto 2007)


Dario Fo riscopre Michelangelo: «Un esempio: dava lezioni di dignità ai potenti» - Il Messaggero

Rassegna stampa:
Il Messaggero
Dario Fo riscopre Michelangelo: «Un esempio: dava lezioni di dignità ai potenti» -

FIRENZE (28 agosto) - Michelangelo "il più Grande": orgoglioso, poliedrico, indipendente, trasgressivo. Un gigante del Rinascimento che «dovrebbe essere di esempio a molti nel nostro Paese, intellettuali e politici». Questo il Michelangelo di Dario Fo, che dopo Caravaggio, Mantegna, Raffaello e Leonardo, prosegue la riflessione sui grandi dell'arte italiana. Un Grande del Rinascimento, non solo per la bellezza delle sue sculture, la stupefacente delicatezza delle sue poesie e dei suoi dipinti. Un Grande anche per coraggio, coerenza e per impegno politico, «tra i più perseguitati ma uno tra i pochi che seppe dare una lezione ai governanti denunciando intrallazzi e mancanza di dignità». È questo il Michelangelo Buonarroti, fuori dagli schemi tradizionali, che Dario Fo ha scelto di portare in scena, dopo un accurato lavoro di ricerca, nello spettacolo Lezione sul Buonarroti - Tengo nelle mani occhi e orecchie: Michelagniolo.

L'ultima fatica dell'ottantenne premio Nobel sarà presentata giovedì in anteprima nazionale a Fiesole, nel Teatro Romano, nell'ambito della rassegna estiva del Comune di Firenze diretta da Piero Pelù e intitolata "Fi.Esta", in collaborazione con l' Estate Fiesolana. «Credo di essere riuscito in questo testo a dare una dimensione e un valore a questo grandissimo uomo togliendolo da equivoci gravi - ha spiegato Fo -. È stato dipinto come un personaggio un po' scomodo, sempre propenso alla rissa, aggressivo verso tutto e tutti, crudele anche verso i colleghi».

«Dopo la nostra ricerca dico: meno male che si risentiva, perché altrimenti sarebbe stato un abbioccato, sarebbe stato qualcuno che accettava la condizioni di essere messo in ginocchio davanti alle violenze, alle perfidie e al disprezzo che i potenti hanno avuto sempre per i loro artisti, spesso trattati come servi. Michelangelo è stato uno dei pochi a piantare in asso un Papa, e con piglio».

Dalla lezione di Michelangelo allo sguardo sulla stato della cultura in Italia. Per Fo nel nostro Paese «si è perduto il valore della cultura. Io sollecito che si guardi con attenzione alle cose del passato». Più caustico il premio Nobel, quando gli si chiede se prossimamente i suoi spettacoli potranno essere visti in tv non a tarda ora. «C'è una grande ignoranza tra quelli che molto in alto hanno in mano la cultura in Italia - accusa Fo -. In Inghilterra ho preparato un programma di tre quarti d'ora per la Bbc che sono stati trasmessi in prima serata, nella fascia di massimo ascolto. Qui in Italia siamo campioni della fuga dall' emancipazione e dalle cose impegnate. Rischiamo perciò di avere soltanto mediocre comunicazione e volgarità continua».


Dario & Amintore Fo: quando pensavo di rapire Fanfani - La Repubblica - Milano

Rassegna stampa:
La Repubblica - Milano

Torna, in versione video, la satira rappresentata nel 1975

Il Nobel la ricorda così
Dario & Amintore
Fo: quando pensavo di rapire Fanfani

Laura Bellomi

"Oggi mi scaglierei contro le banche e l´evasione fiscale"
"Il leader Dc veniva portato in clinica travestito da donna"

Il rapimento oggi non andrebbe più bene, meglio una partita a scacchi. «Con Berlusconi e la Brambilla. Provate a pensare se la moglie di Berlusconi si innamorasse di Casini, e la Brambilla cambiasse amante oppure venisse tradita…Un gioco di ruoli quasi paradossale». Dario Fo parla della sua commedia "Il Fanfani rapito" che dopo trent´anni torna a Milano.
Giovedì alla Fabbrica del Vapore si proietta la registrazione, con sonoro in presa diretta, dello spettacolo. Era il 5 giugno 1975 quando alla Palazzina Liberty, alla vigilia delle elezioni amministrative, Dario Fo metteva in scena "Il Fanfani rapito", una commedia in tre atti in cui l´allora segretario della Democrazia cristiana, rapito e travestito da donna, viene portato in una clinica per aborti gestita da suore.
Nel bel mezzo della prima Repubblica, succede questo ed altro: a organizzare il rapimento, però, non sono le Brigate Rosse ma Giulio Andreotti, convinto che per evitare il disastro elettorale si debba far sparire proprio uno dei cavalli di razza del partito.
Fo, che tra pochi giorni debutterà a Fiesole con due serate dedicate al genio di Michelangelo, ricorda così quei giorni. «Avevo scelto di mettere in scena il rapimento per fotografare una situazione politica fatta di violenza e atti criminali. Il paradosso poteva essere lo specchio deformante attraverso cui leggere la realtà…Certi fatti, del resto, poi si sono anche verificati».
Allora, l´obiettivo del futuro premio Nobel per la letteratura era lo strapotere della Democrazia Cristiana. E oggi, quali soggetti sceglierebbe per una nuova edizione dello spettacolo? «L´evasione fiscale, e la corruzione, senza dimenticare le banche e il trasformismo dei nostri politici: a destra come a sinistra c´è solo l´imbarazzo della scelta». Negli anni settanta denunciava le deviazioni della Polizia e dei Servizi segreti, adesso lo preoccupano le maniere truffaldine dei politici. «Si cerca di fare un super partito anche a destra, il gioco consiste nello spiazzare gli altri: si lavora a piccoli gruppi ma l´obiettivo è sempre e comunque uno: mettere gli altri con le spalle al muro e poi eliminarli».
"Il Fanfani rapito" che vedremo giovedì sera è una versione in bianco e nero, in pellicola 16 mm, prodotta dalla Cooperativa cinema democratico per la regia di Dimitri Makris e presentata dalla Cineteca Italiana. La trama. Fanfani, prigioniero nella clinica, si sente minacciato da tutti. A causa della sua altezza, non proprio spiccata, lo scambiano per una bambina madre. Il cappellano gli si avvicina per confessarlo prima dell´operazione ma lui, avendo bene in mente la legge Reale per la sicurezza pubblica, chiede ai poliziotti di arrestarlo. Un frate che si aggira con una croce al collo, chiaro oggetto contundente, è decisamente un individuo sospetto. Alla fine Fanfani entra il sala operatoria e partorisce il feto di un burattino in camicia nera, un piccolo fascista. Avanzando a colpi di paradossi, la satira procede fino in Paradiso dove, dulcis in fundo, il Padre Eterno accusa Fanfani di essere la causa del disastro italiano.
Ma per sua fortuna, a un certo momento si sveglia: era tutto un incubo, ringrazia il cielo di aver solo sognato. Poco dopo però, la realtà supera l´immaginazione e alla porta del suo ufficio si presentano i rapitori in carne e ossa mandati da Andreotti. Questa volta il risveglio non è la salvezza. E per gli spettatori il "fanfascismo" è di nuovo realtà.
Giovedì alla Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4, ore 21.30, ingresso libero
(28 agosto 2007)


Dopo trasmissione Anno Zero

26 giugno 2007

Giovedì scorso dopo l’ultima puntata di “Anno Zero”, la trasmissione di Santoro, finita la messa in onda, appena fuori dallo studio si formò un capannello piuttosto numeroso di ragazzi che avevano partecipato al dibattito e di tecnici della Rai. Tutti si dicevano indignati per il comportamento inaccettabile dimostrato da Rutelli. Nell’ultima parte del programma, Santoro aveva dato la parola ad una donna di una cinquantina d’anni la quale iniziò a narrare la strage di operai avvenuta a Monfalcone (dove operano i famosi cantieri navali). I lavoratori dell’impresa in questione hanno utilizzato per anni l’amianto, notoriamente tossico. Molti operai ne venivano contaminati, uno appresso all’altro si ammalavano e in seguito ad una vera propria agonia sono morivano. Anche la donna aveva perso suo marito e parlava trattenendo a stento le lacrime.
Tutti noi presenti nello studio eravamo coinvolti e sconvolti da quella testimonianza, soprattutto ci indignava il cinismo dimostrato dai responsabili dell’impresa, il loro ipocrita scantonare dalle responsabilità appoggiati dai medici che palesemente andavano mistificando le diagnosi, così da togliere d’impaccio i datori di lavoro. Si stava vivendo una via crucis insopportabile dove giudici, autorità amministrative, politici locali e nazionali venivano alla ribalta unti e bisunti di infamità. La donna alla fine puntava il dito contro chi indifferente aveva permesso quel massacro annunciato da anni e direttamente si rivolgeva all’unico rappresentante del Governo presente alla trasmissione perché spiegasse per quale motivo suo marito avesse dovuto morire, e come mai nessuno dei responsabili fosse stato chiamato a pagare. Il Ministro Rutelli, piuttosto impacciato (e chi non lo sarebbe stato?!), prese la parola e incappò in un vero e proprio infortunio politico. Infatti all’uscita quei giovani spettatori lo accusavano di essersi posto immediatamente sulla difensiva, esprimendosi più o meno con queste parole: “Partecipo addolorato alla tragedia della signora, ma purtroppo non sono a conoscenza dei fatti. Ho seguito altre catastrofi del genere sul lavoro, ma di tutto questo ahimè non conosco nulla.”
E’ proprio su questa uscita che i ragazzi esplodevano indignati: “Ma ci voleva poco – commentavano – davanti ad una simile tragedia ad ammettere prima di tutto la responsabilità di tutti i dirigenti delle istituzioni: medici, polizia, giudici, imprenditori, sindacati e politici! Che altro valore e peso civile avrebbe determinato per Rutelli riconoscere: sono sconvolto e mi sento a mia volta responsabile per questa ennesima assenza degli organi costituiti davanti a una simile catastrofe. Ad ogni buon conto, poteva aggiungere, mi darò subito da fare per appurare le responsabilità di ognuno e le assicuro signora che farò l’impossibile perché lei, suo marito e tutte le vittime dell’impresa di Monfalcone abbiate soddisfazione per tanta ingiustizia e possiate essere risarciti di tutti i danni subiti. Basta con i morti accidentali: quelli del petrolchimico di Marghera e di Gela, quelli di Seveso, quelli dell’Acma di Cengio… Ve ne posso parlare perché da vice presidente del Governo è mio dovere sapere e denunciare.”
Invece abbiamo dovuto assistere alla solita agile fuga dalle responsabilità e quel che è peggio ci siamo trovati innanzi a una donna che veniva alla trasmissione con la speranza di vedere affiorare un atteggiamento di comprensione e solidarietà e invece eccola rimasta un’altra volta sola con il suo dolore. Per di più – e ne sono stato personalmente testimone – due collaboratori di Rutelli alla fine si sono avvicinati a Santoro piuttosto indignati accusando: “Voi avete approntato una trappola al vice presidente del Consiglio con questa messa in campo della vedova. Una trappola nella quale purtroppo Rutelli è caduto in pieno.” “No, scusate ma non c’è nessuna trappola – ha risposto loro Santoro – la vedova dell’operaio di Monfalcone è venuta qui con il diritto di raccontare della sua storia: era libera di esprimersi come le pareva, nessuno l’ha controllata o imboccata e questa vostra insinuazione ci indigna ancora di più.”

Dario Fo