THE ECONOMIST METTE BERLUSCONI IN COPERTINA: "L'UOMO CHE HA FREGATO IL PAESE"

-«The man who screwed an entire country» l' uomo che ha fottuto un intero Paese». L'Economist torna ad attaccare Silvio Berlusconi bocciandone senza appello la politica di governo. Il presidente del Consiglio italiano è tornato in copertina del settimanale britannico in uscita venerdì, a otto anni dal celeberrimo «unfit to lead Italy», inadatto a governare l'Italia, e a cinque dall'altrettanto polemico «E' tempo di licenziarlo». L'occasione di quest'ultima «cover story» è la pubblicazione di uno speciale di 16 pagine sull'Italia realizzato per l'anniversario dei 150 anni. L'analisi di John Prideaux, autore del rapporto, lascia emergere un Paese fermo che paga con la «crescita zero» le mancate riforme. «L'Italia ha tutte le cose che le servono per ripartire, quello che serve è un cambio di governo».

L'EDITORIALE - «Nonostante i suoi successi personali Berlusconi si è rivelato tre volte un disastro come leader nazionale», si legge nell'editoriale. Il primo disastro è la «saga» del bunga bunga e il secondo sono le vicende che hanno premier in Tribunale rispondere di frode, truffa contabile e corruzione. «I suoi difensori - spiega l'Economist - dicono che non è mai stato condannato ma questo non è vero. In molti casi si è arrivati a delle condanne ma queste sono state spazzate via» o per via della decorrenza dei termini o «in almeno due casi perchè Berlusconi stesso ha cambiato la legge a suo favore». «Ma il terzo difetto è di gran lunga il peggiore - continua l'Economist - e questo è il totale disinteresse per la condizione economica del paese. Forse perchè distratto dai suoi problemi legali, in nove anni come primo ministro non è stato in grado di trovare un rimedio o quanto meno di ammettere lo stato di grave debolezza economica dell'Italia. Il risultato è che si lascerà alle spalle un paese in grave difficoltà. La malattia dell'Italia non è quelle di tipo acuto; si tratta piuttosto di una malattia cronica, che pian piano mangia via la vitalità». Se fino ad ora, «grazie alla linea del rigore fiscale imposta dal ministro delle finanze Giulio Tremonti» l'Italia è riuscita e evitare di diventare la nuova vittima della speculazione dei mercati, questo non significa che la linea di credito sia infinita. Un'Italia stagnante e non riformata, con un debito pubblico ancorato attorno al 120% del pil, si ritroverebbe così esposta come il vero problema dell'eurozona. Il colpevole? «Berlusconi, che non ci sono dubbi, continuerebbe a sorridere» conclude l'Economist.

 

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IL RAPPORTO - «Non farò l'errore di predire la fine di Berlusconi - ha detto l'analista incontrando la stampa a Milano - ma arrivando qui, parlando con le persone si inizia a sentire un'aria nuova, la fine di un'era».«L'Italia ha un problema di produttività, ha bisogno di alcune riforme. Se guardiamo agli ultimi dieci anni e più, dimenticando tutti gli scandali, lo scontro con i magistrati, il problema è c'è stato un disastro da un punto di vista economico. Berlusconi è arrivato al potere con l'idea di essere un imprenditore di successo in grado di fare le riforme economiche, ma poi non le ha fatte» e il Paese «ha sprecato» tempo prezioso.

BASSA CRESCITA - Il nostro Paese ha avuto il «più basso tasso di crescita di tutti gli altri Paesi del mondo occidentale. Tra il 2000 e il 2010, il Pil italiano è cresciuto in media dello 0,25% all'anno, una dato allarmante - scrive l'Economist - migliore solo rispetto a quello di Haiti o dello Zimbawe». E nonostate l'Italia «abbia saputo evitare il peggio durante la recente crisi finanziaria globale, non ci sono segnali di una possibile inversione di tendenza».

 

GERONTOCRAZIA - Nonostante i problemi che appaiono per lo più legati alla fase politica, l'Italia resta un «Paese civilizzato, ricco, senza conflitti». Il «successore di Berlusconi potrebbe introdure alcuni immediati miglioramenti con poco sforzo» e dovrà sicuramente metter mano alla legislazione sul lavoro «che favorisce gli anziani». L'Italia è afflitta tra le altre cose da una «gerontocrazia istituzionalizzata» che rende difficile ai giovani costruirsi una carriera. Tanto che dobbiamo porci il problema di come «richiamare migliaia di giovani di talento che sono emigrati e potrebbero avere un impatto positivo per il Paese».

 

Paola Pica
09 giugno 2011

Da Corriere della Sera


[VIDEO] Dario Fo in "The story of John Horse, a black Seminole indian"

Hollywood films on american indians always tell us of indians been defeated. In this video Dario Fo tell us a different story never been told before. The story is the one about the epic John Horse, who fought against the American troops during the second Seminole war (1835-1842). Dubbing Mario Pirovano.

 

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Dario Fo: "Il mio Decameron in chiave riveduta e scorretta"

L'ultima fatica, a 85 anni, è un omaggio al Boccaccio. "Un rivoluzionario", dice il premio Nobel
Che parla di santi e giullari, di esordi e successi, di fascismo e '68. E dell'Italia dei giorni nostri

di ANTONIO GNOLI

Dalle parti di Gubbio, a Santa Cristina, c'è la Libera Università di Alcatraz, un luogo ameno tra le colline Dalle , dove Dario Fo mi riceve. Qui passa alcuni mesi dell'anno, con Franca Rame, il figlio Jacopo (motore e ideologo di questa comunità dedita alla cura del corpo e dello spirito) e una schiera di giovani che fanno il loro apprendistato. Nell'atelier dove aspetto l'arrivo di Fo tre ragazze lavorano alla rifinitura di un quadro. Altre tele sono appoggiate a una parete. C'è chi scrive al computer e chi telefona. L'atmosfera è armoniosa. Non riesco a capire - lo dico senza ironia - se questo luogo sia un reperto del passato o una scommessa per il futuro. Ma in fondo è solo un pensiero.

Il Decameron disegnato da Fo

Sono qui per Fo, per il suo nuovo libro dedicato al Boccaccio, una riscrittura per parole e immagini delle sue novelle. Ma sono qui anche per capire che cosa resta di questo monumento della cultura alternativa, quand'ecco che si materializza. Chiede un bicchiere di latte, si siede comodo, mi guarda premuroso. È imponente senza essere intimidatorio, il sorriso è bello. Ha da poco compiuto ottantacinque anni. Si scusa per avermi fatto attendere, ma con la Franca hanno passato una nottata in bianco e poi una mattina a tentare di risolvere una fastidiosa bronchite. È un uomo innamorato quello che mi sta di fronte. Innamorato di Franca, del teatro, della vita. Dell'umanità. Gli chiedo se si considera fortunato. "Lo sono, lo sono", dice con una certa ritrosia. "In fondo ci sono stati personaggi grandissimi che non hanno avuto in sorte la stessa fortuna".

Come Boccaccio?
"Muore povero e dimenticato. Ma la sua grandezza è cristallina. Rivoluziona la letteratura ed è un gesto che trasforma radicalmente anche il teatro. Ha alle spalle i fabliaux, i racconti in versi medievali".

A proposito di teatro, nel Decameron c'è la grande trovata scenica dei giovani che si ritirano in collina mentre in città, a Firenze, infuria la peste.
"Ma è anche un fatto storico e Boccaccio deve stare attento a raccontare, sapendo cosa rischiano gli scrittori, i giullari. Su tutto pesa l'editto di Federico II di Svevia che impone la gogna e la morte ai buffoni maldicenti".

Boccaccio arriva dopo Dante, in cosa gli è debitore?
"Sono due nature immense, ma mentre potrei forse prescindere da Dante non saprei farlo con Boccaccio. La sua grandezza è aver posto Dio a un lato del suo mondo, mentre Dante continuamente lo colloca al centro. Per questo la condanna della Chiesa è molto più forte nei riguardi di Boccaccio".

Le piacciono le figure rivoluzionarie.
"Mi piacciono le figure che rischiano e che inventano linguaggi".

Però ha una predilezione per i santi.
"In genere quando noi pensiamo ai santi immaginiamo il santino. Ma i santi d'Italia erano spesso trasgressori, rivoluzionari: gente che rischiava la vita, che finiva in galera o sul patibolo".

E perché la Chiesa li beatificava?
"Perché era forte la loro presa popolare, e poi mica tutti venivano fatti santi. Di Jacopone da Todi, considerato un santo dalla popolazione, la Chiesa ha cancellato perfino le spoglie".

La religione è una delle fonti alle quali lei si ispira. È così importante per un laico come lei?
"Distinguerei tra religione e religiosità".

Qual è la differenza?
"La religione è un fatto istituzionale, la religiosità un atteggiamento composto di credenza e ritualità. La religiosità, per esempio, non può prescindere dall'osceno. Pensi al risus paschalis, uno dei riti collettivi liberatori più importanti di tutta la storia della Chiesa. La loro narrazione ha sempre per oggetto cose proibite. Nell'iconografia il vescovo è rappresentato sopra la comunità dei fedeli, mai dentro. Il che indica il distacco tra la Chiesa e il popolo che praticava quei riti".

Che sono in fondo un'eredità pagana.
"Il paganesimo sopravvive nell'esperienza popolare: il grande capro, il serpente tentatore, le creature della terra, il valore stesso della vita collettiva trovano un collante nel riso. Attraverso il riso si buttavano all'aria le consuetudini sbagliate, le forme meschine del potere. Pazzia, ironia, grottesco e perfino la morte fanno parte della religiosità popolare e il teatro è il luogo giusto per esaltarli".

Come è nato il suo innamoramento per il teatro?
"Sono nato a Sangiano, una terra di fabulatori meravigliosi. Da quelle parti c'era una vetreria dove ogni anno si davano appuntamento da tutta Europa i soffiatori di vetro. Arrivavano con le loro famiglie, comunità intere che si spostavano e ciascuna aveva i loro raccontatori. A dieci anni ho capito il valore delle lingue, dei dialetti e delle storie che venivano narrate".

Fu un apprendistato?
"Un'educazione all'insolito e al trasgressivo. Ma io volevo dipingere, perché questa era la mia passione. Frequentai il liceo artistico e poi l'Accademia. Furono otto anni durante i quali tutte le mattine prendevo il treno per Milano e tutte le sere tornavo al mio paese. Sul treno ho avuto la mia formazione di attore: recitavo su richiesta e mi consideravano bravissimo".

Ma la pittura restava il primo amore.
"Non potevo farne a meno. Frequentavo Brera, ma alla fine - anche per una crisi legata a un malessere interiore - il teatro ha avuto la meglio".

Dice che frequentava Brera, anche il bar Giamaica?
"Certo, ma siamo già nel Dopoguerra. Il Giamaica non era solo un luogo di bevute o di corteggiamento delle puttane, lì vicino era tutto un pullulare di casini, ma anche un posto dove si davano appuntamento scrittori, artisti, fotografi, teatranti. Ho imparato più cose lì e nelle osterie e latterie di quella zona che in tutti gli anni della scuola".

Il fascismo era già un ricordo.
"Un incubo dal quale eravamo usciti. Scoprivamo la libertà. Era come avere a disposizione un grande foglio bianco sul quale poter scrivere quello che ci pareva senza per questo finire in galera. E inoltre erano saltate le gerarchie dei generi: potevi mescolare il teatro drammatico con l'avanspettacolo e il risultato, sorprendente, era la nascita di una nuova forma di avanguardia".

La sua consacrazione teatrale si realizza con il Sessantotto.
"Fu naturale che ciò accadesse. I presupposti di questo successo erano tutti nella commedia dell'arte i cui interpreti, tra il Cinque e il Settecento, dominano l'Europa teatrale. Sono i comici ad abbattere alcuni limiti imposti al teatro".

Quali?
"Per esempio il fatto che le donne non potessero recitare. Sono stati i comici italiani a rompere l'interdetto, per cui il massimo che si potesse fare era far recitare la parte a una finta donna, a un travestito".

E questo elemento "rivoluzionario" è la chiave con cui entra nel Sessantotto?
"È la risata trasgressiva e ludica che risveglia il mondo".

Ma non crede di essere stato un'eccezione?
"No, sono stato la conseguenza di un movimento straordinario".

Che però ha poi preso tutt'altra direzione.
"È come se fossi nato nel punto dove si depongono le uova che si schiuderanno. Non posso certo cambiare. Vengo da quell'occasione. Ogni qualvolta accadeva una novità, un'effervescenza, una trasgressione io c'ero. Recitavo Mistero buffo, e sa cosa è stato il mio successo in tutta Europa? Trasgredire, portare un vento di novità, rompere con i canoni fino ad allora dominanti sul mondo della cultura. Da 'buffone' conobbi Jean Paul Sartre e lui impazzì per me, per quello che rappresentavo con il mio teatro".

Eppure questa linea è restata minoritaria nel Sessantotto.
"Ma le cose migliori vengono proprio da quella esperienza. Non si capirebbe Benigni e il suo Dante senza questo sfondo. Il problema è che oggi per i giovani è molto più difficile fare satira. La televisione è in mano a un manipolo di scellerati. Con Giorgio Albertazzi abbiamo realizzato sedici puntate sul teatro, tutte trasmesse dopo l'una di notte. E nonostante ciò facevano più di un milione di spettatori a puntata".

In che Paese ritiene di vivere?
"Stanno cercando in tutti i modi di distruggere la cultura. Ma il vero massacro non è nel tenere in disparte persone come me, che comunque hanno avuto la loro storia, ma condannare i giovani al silenzio, mortificandone la creatività. C'è un premier che è rimasto alle barzellette e non ha capito che il linguaggio del mondo è anni luce avanti. Sta facendo dell'Italia la sua tomba".

Sembra l'accusa accorata di un premio Nobel.
"Lo sono".

Cosa le ha dato e cosa le ha tolto quel premio?
"È stato il coronamento di una vita culturale. Ma guai se mi avesse impedito di andare oltre. Franca mi dice spesso: meno male che non vesti mai i panni del premiato".

Se lo aspettava?
"Ero già stato in lizza dieci anni prima. Poi in alcuni ambienti cominciò a circolare la notizia che avevo vinto il Nobel, per cui l'Accademia mi tolse dalla lista. Lo venni a sapere molto dopo".

Lei ha dichiarato una volta che il Nobel lo avrebbe meritato "quel reazionario" di Borges.
"E lo confermo".

Ma se fosse stato lei a dover scegliere se dare il premio a Borges o a Dario Fo, come si sarebbe comportato?
"Con tutta la gioia, il rispetto, la considerazione avrei detto: lo merita senz'altro Borges. Ma meno male che ci sia stata un'ingiustizia a mio vantaggio!".

Ora vive qui ad Alcatraz?
"Solo una parte dell'anno. Ho una fattoria non lontano da Cesenatico con uno spazio per lavorare ai miei quadri. Del resto anche qui c'è un atelier dove dipingo".

Quando dipinge?
"È un'attività che non ho mai abbandonato. Ma è soprattutto quando vado in crisi, quando non riesco a risolvere un problema che dipingo e disegno rimettendo in moto il cervello".

E a Milano torna?
"Certo, ma non volentieri".

Che impressione le fa?
"Orrenda. Non ha più un'anima. Non c'è slancio, follia, creatività. Eppure resta una città generosa. Ma io che vi sono arrivato da ragazzino non trovo più il piacere di starci".

Fa ancora volentieri teatro?
"Quello che faccio è solo per i giovani. Il teatro si compone di cielo, di terra e di sottosuolo. Il cielo è coperto, la terra è arida e il sottosuolo è sempre più buio".


DARIO FO A CATANIA PER IL BARBIERE DI SIVIGLIA

 Sarà un allestimento coinvolgente e ricco di trovate quello che Dario Fo, Premio Nobel per la Letteratura 1997, sta preparando per Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, prossimo appuntamento della Stagione Lirica 2011 del Teatro Massimo Bellini, in programma dal 10 al 19 maggio prossimi.

L’artista, che di questo Barbiere firma non soltanto la regia, ma anche le scene, i costumi e le luci, ha un suo personale punto di vista su Rossini, compositore le cui musiche l’hanno accompagnato per tutta la vita, e su come rendere la più popolare e conosciuta delle opere del grande pesarese.

“La musica di Rossini – ha spiegato Dario Fo – è ricca di spezie e di aromi. E’ una musica nella quale si scoprono olive e pomodorini, piccoli pesci fritti, turgidi chicchi d’uva dolce, profumo di rose e di rosmarino, lenzuola e tovaglie, vino secco e risate di giovani fanciulle. Desidero mettere in scena un Barbiere ricco di ognuno di questi ingredienti, e
metterlo in situazione in uno spazio ampio e pieno di luce”.

E ancora: “Nella mia regia ho fatto di tutto per inserirci umorismo, gioia e divertimento. Anzi, questi elementi sono fondamentali. Ho voluto comunicare questo entusiasmo ai cantanti e ai musicisti così che a loro volta si divertano quando cantano e suonano”.

Dario Fo nella sua lunga carriera artistica ha firmato quattro regie di opera, tutte di Rossini e di successo. Nel cast artistico di questo Barbiere fanno parte dal Don Basilio di Simone Alaimo alla Rosina di Anna Bonitatibus, dal Conte di Almaviva affidato a Mario Zeffiri al Figaro di Christian Senn. A dirigere l’orchestra stabile del Teatro Massimo Bellini sarà il direttore artistico dell’ente, Will Humburg.


IL FALLIMENTO DELLA POLTICA LEGHISTA SULL'IMMIGRAZIONE

“E’ la volta buona”. E’ questo un pensiero largamente condiviso dai candidati all’emigrazione che, dalla sponda dei paesi a sud del Mediterraneo sognano l’Europa. E’ anche il pensiero alimentato dagli scafisti e trafficanti vari verso chi vuol partire. Sullo sfondo della guerra libica, il business della migrazione è diventato un’opportunità straordinaria. Ma a contribuire ad alimentare questo circolo vizioso è l’invito da parte del Governo Italiano. Come una profezia che si realizza, leprevisioni di migrazioni bibliche, fino a 300 mila persone secondo Frattini e la richiesta di aiuto da parte dell’Ue per un piano straordinario di accoglienza di profughi. Allora è una buona occasione per chi sogna l’Europa.

 

Vale la pena rompere qualche salvadanaio per compiere la traversata. Il messaggio si diffonde persino nell’area dei paesi dell’Africa Nera dove i candidati all’emigrazione sanno che la “diga” del Boia Gheddafi è venuto meno. Ma è soprattutto una buona opportunità per chi lucra su questi viaggi della speranza. E dunque Yalla Yalla cioè fare presto! D’altronde gli scafisti sono veloci e sanno sempre leggere i processi politici e sanno sfruttare le crespe politiche del governo italiano. E dunque anche loro intensificano le loro offerte. Come se non bastasse, il nuovo accordo con la Tunisia che impegna quel paese a un maggiore controllo dei profughi con tanto di fornitura di mezzi logistici e di addestramento oltre che una linea di credito di 150 milioni di euro.

 

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Ma la ciliegina sulla torta è l’offerta di 1500 euro per ogni immigrato che accetterà di tornare a casa e potrà contare su un aiuto per avviare un’attività economica in patria per non aver più bisogno di emigrare. Geniale! Il modo migliore per far incazzare Bossi e i suoi! Insomma prima l’invito, poi il pagamento se c’è disponibilità a rimpatriare poi i soldi al governo tunisino. Ecco tutta la follia del Governo nella sua guerra contro la cosiddetta emergenza sbarchi. Un’emergenza sollecitata o quanto meno invocata prima ancora che esistesse pur di non affrontare i nodi politici e diplomatici della guerra in Libia. Ora il caso Lampedusa che mette a nudo l’incapacità di questo Governo a gestire poche migliaia di persone. Finora meno della media dei tifosi che vanno allo stadio la domenica e che il governo non riesce a smistare sul territorio. Sono anni che questi signorispeculano politicamente sull’immigrazione promettendo soluzioni definitive. Se tutto questo non fosse drammatico ci sarebbe da ridere fino alle lacrime. Maroni oggi è il volto del fallimento della politica leghista sull’immigrazione. Dunque per Bossi e i suoi i nodi sono venuti al pettine: non potranno più mentire alla gente sull’immigrazione. Le loro ricette sono fallite. (
http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/abfaye/)