Io vorrei svolgere davanti a voi questa sera per esteso un discorso sulla cultura e sul suo valore in una società civile, cosa a cui all’inizio ha già vivacemente accennato Beppe. Spero di riuscirci.
I grandi esperti mondiali dell’economia, fin dall’inizio della crisi internazionale che stiamo vivendo, hanno denunciato con gran vigore che quella immane catastrofe che ci ha scaraventati in ginocchio è il risultato di una vera e propria truffa combinata attraverso l’utilizzo dei cosiddetti derivati e dei titoli spazzatura.
A dimostrazione di quello scempio abbiamo visto qualche anno fa dall’America un sevizio in cui venivano rappresentati migliaia di impiegati con le loro pratiche infilate in cartoni che se ne uscivano licenziati in tronco dagli istituti di credito americani caduti in rovina. L’onda malefica è giunta poi fino a noi, presentata in altri termini ma con le stesse truffalderie.
Tutti i nostri governanti che si sono succeduti in questi ultimi anni ci hanno parlato subito con il cuore spezzato dal dolore dei sacrifici che tutti, ripeto, tutti gli italiani equanimamente, come diceva il professor Monti, ricchi e poveri, abbienti e straccioni, avrebbero dovuto sopportare per salvarci dal baratro in cui stava cadendo tutta la nazione. E qui è arrivata la più grande frode finanziaria a dir poco spietata. Chi ha pagato e continua a pagare questo debito togliendosi dalla propria tasca fino all’ultimo denaro? Soltanto gli operai, i piccoli risparmiatori, gli impiegati in bilico, le donne, i giovani, i pensionati.
Una rapina sui diseredati per salvare chi? La nazione? No, le banche e le multinazionali. Gli speculatori e i furbi sono rimasti indenni, anzi, ne hanno avuto vantaggio, moltiplicando il loro capitale nascosto qua e là per tutti i paradisi fiscali. Ormai è chiaro, il paradiso è solo per i potenti e i manigoldi. Fra qualche giorno, vedrete, lo dirà anche il nostro beneamato papa Francesco.
E noi, stupiti per tanta spudoratezza del potere economico, che si fa? Si resta con la bocca spalancata emettendo ogni tanto qualche gemito classico dei fottuti da sempre? No, per Dio! Oltretutto non è sempre andata così! C’è stato un tempo in cui, di fronte alle angherie e alle rapine, si reagiva e come! A cominciare dall’epoca in cui si son fondati i Comuni, circa mille anni fa. Allora fare il politico non era una professione per gli scaltri, ma un diritto e un dovere per ognuno.
I responsabili delle libere repubbliche in Italia, davano molta importanza alla conoscenza, quindi alle biblioteche, alle università e alle accademie. Le sovvenzioni per sostenere la cultura erano elargite in abbondanza. Perfino più tardi, all’epoca delle Signorie, con i principi e i duchi, il vitale bisogno d’arte e di sapere era così profondamente entrato nello spirito di ognuno da non poterne fare a meno. Così che oggi l’Italia, grazie a quell’antico amore per la bellezza e il sapere, custodisce un enorme patrimonio culturale.
Godiamo di una straordinaria quantità di capolavori, monumenti e biblioteche che però facciamo fatica a gestire e mantenere attive. Anzi, lasciamo andare tutto in rovina, ogni giorno frana qualcosa.
Ma com’è che i dirigenti, salvo ultimamente il nostro caimano preferito, non franano mai? Anzi, vengono scaricati sì, ma con buonuscite da nababbi. A me capita spesso di recarmi all’estero per allestire spettacoli e recitare, e incontro molti giovani italiani costretti a emigrare in università d’altri paesi per poter arricchire le proprie conoscenze.
Quei giovani devono sopportare grandi sacrifici, spesso impararsi da zero una lingua e soprattutto accettare lavori pesanti e mal retribuiti, come le pulizie notturne negli uffici, i camerieri e i facchini, pur di riuscire a pagarsi gli studi. Oltretutto, una volta terminato il proprio percorso formativo, in gran numero questi laureati trovano facilmente lavoro in aziende straniere e quindi non convien loro tornare in Italia.
Così ecco che, come se non bastasse, perdiamo un numero incredibile di talenti che avrebbero significato un bene inestimabile per il nostro paese e per la nostra economia. Ma come mai siamo arrivati a questo livello? È semplice. I responsabili culturali dei vari governi che si sono succeduti alla guida dell’Italia sempre meno hanno ritenuto importante investire nel sapere e nell’arte. Infatti, quando un governo deve nominare un ministro alla cultura chi scelgono? Sempre degli incapaci. E soprattutto personaggi di scarto che non si saprebbe dove piazzare. “Dove lo sistemiamo questo imbecille calvo?” “Alla Cultura naturalmente!”.
A riprova di questo c’è stato un nostro ministro dell’economia, certo Tremonti, che con prosopopea ha dichiarato: “Con la cultura non si mangia”. Una imbecillità a dir poco galattica.
Di contro, proprio in queste ultime settimane, il governo francese ha dato notizia che l’ambito in cui l’economia si ritrova in maggior vantaggio in quella nazione non è più l’industria automobilistica, giacché essa è stata di gran lunga sorpassata dalla gestione dei beni culturali. Questo succede quando una nazione è cosciente dello straordinario potenziale che sta nel sapere.
E noi? Come possiamo essere così disinformati e inetti? Da dove viene questo tracollo?
Fate caso: in questi ultimi anni abbiamo assistito e partecipato a un numero enorme di elezioni regionali, comunali, provinciali. Ebbene, in nessuna di quelle campagne si è avuta mai l’occasione di incappare in un politico di professione che trattasse con serietà nel suo discorso la questione dell’informazione, del conoscere e della scuola.
Come dicono oggi tutti gli oratori che trattano di politica, si parla esclusivamente alla pancia degli elettori, non al cervello. Il pensiero è un optional di poco conto.
Oltretutto oggi, andando all’estero, ci rendiamo conto che la nostra reputazione presso tutti i paesi d’Europa e d’America si è spaventosamente abbassata. Gli stranieri, come scoprono che siamo italiani, fanno battute ironiche sulla nostra situazione finanziaria e soprattutto politica, sulla nostra credibilità morale. Sghignazzano sui nostri governanti e manca poco che ci si senta trattare a nostra volta da cialtroni senza dignità e coraggio civile. E purtroppo noi, davanti a quel disprezzo, non sappiamo come reagire.
Cosa è successo? È chiaro, abbiamo seppellito la nostra memoria e con lei il tempo della dignità e dell’orgoglio. I foresti, come noi li chiamavamo secoli fa, si guardavano bene dal disprezzarci, giacché in ogni stagione ben volentieri essi scendevano da noi sia per fare affari che per conoscere le nostre città, da tutti elogiate per le architetture dallo stile inimitabile, i giardini, lo stato delle acque, con canali e fiumi navigabili per chilometri e chilometri. In quel tempo frotte di giovani dall’estero venivano nelle nostre università di enorme prestigio per apprendere scienza, filosofia ed arte. Noi eravamo maestri in ogni disciplina, come diceva Jaques Menieu, che ci ha dedicato un testo dal titolo La leçon des italiens. Questi Les italiens di genio eravamo noi!
La cosiddetta meccanica era salita nei nostri cantieri a livelli straordinari. Si costruiva impiegando macchinari ideati da noi sia nell’edilizia che nella marineria. Celebri erano i nostri navigatori, meglio, capitani di nave, scopritori di terre che ancora oggi portano il loro nome.
Gli Arsenali di Venezia e di Genova erano in grado di costruire un’intera flotta di navi in pochi mesi usando la tecnica dell’assemblaggio delle imbarcazioni direttamente sul luogo dove si tagliavano gli alberi, cioè sulle montagne, dove si montavano gli scafi e li si facevano giungere al mare attraverso fiumi e canali.
Purtroppo eravamo anche fra i migliori fabbricanti di ordigni da guerra, vedi cannoni e spingarde. Ma il nostro livello più alto veniva raggiunto nell’arte di costruire chiuse per regolare lo scorrere delle acque e strumenti musicali che andavano dagli organi a venti canne alle chitarre a cinque corde e alle viole. Ultimamente in Cina hanno trovato un liuto costruito nel Trecento in Italia.
Egualmente eravamo capaci di impiegare a meraviglia quegli strumenti. Si componevano melodie e liriche da cantare. Si mettevano in scena opere buffe e tragiche con numerosi interpreti sia cantori che musici. Anche gli stranieri che si ispiravano alle nostre opere usavano cantare nel nostro idioma. Ma anche i teatri dove esibirsi erano costruiti da nostri architetti. Spazi dove l’acustica era perfetta e reggeva a canti e contrappunti eseguiti da un coro di cinquanta voci.
Così, ancora oggi, andando intorno per paesi come la Russia, l’Irlanda, la Svezia, non facciamo che scoprire teatri e palazzi costruiti da maestri italiani. Tanto che la regina Elisabetta I d’Inghilterra a un certo punto gridò seccata: “Basta con questi italiani che ci troviamo fra i piedi ogni due minuti! Sembra che abbiano inventato tutto loro!”.
E in verità stavamo proprio esagerando! Inventavamo poesie d’amore e satire esilaranti, ed eravamo grandi pittori. Nella sola Firenze si trovavano a far dipinti nelle loro botteghe artisti in tal numero e di tale grandezza quanti non se ne trovavano nell’intera Francia.
Dicono che i mercanti delle Fiandre che scendevano in Italia a vendere i propri tessuti preferissero non tornarsene col denaro ma con dipinti su tela arrotolati come tubi. Le monete d’oro erano più pesanti della tela. E soprattutto quei rotoli tenuti sotto le ascelle non destavano l’attenzione dei briganti, che non se ne intendevano d’arte, proprio come oggi i nostri amministratori.
Ma come si può risalire al tempo di questa nostra età dell’oro e della dignità? Come è successo che all’istante tutto sia andato a scatafascio? Chi ci ha trascinati in questa voragine? Forse la malasorte? I migliori di noi se ne sono andati in altri continenti? C’è stata una metamorfosi genetica nel nostro DNA così che da maestri che eravamo ci siamo trasformati in cialtroni? O è piuttosto l’ignobile cinismo con cui abbiamo accettato di convivere con la peggiore criminalità organizzata di tutto il pianeta, la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, assistendo, spesso indifferenti, al sacrificio di magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine che cadevano ad opera di quei criminali nel tentativo di debellarli? E il ricatto organizzato di certi apparati industriali che, pur di ottenere vantaggi, spostano in altri paesi come pedine di una tombola della morte le imprese nate da noi, grazie al finanziamento statale, cioè dei contribuenti? O sono le altre industrie – vedi l’Ilva di Taranto – che lucrano sulla disperazione degli operai, che devono scegliere se crepare di fame da licenziati o avvelenati dall’inquinamento degli scarichi industriali? Ma non ci sono leggi che lo impediscano e tribunali che mandino in galera i padroni di questa macchina da strage?
Sì che ci sono, ma nello stesso tempo ci sono anche i politici, che accettano denaro sottobanco per convincere i lavoratori a tornare nella gabbia finale della mattanza.
Ecco, finalmente abbiamo trovato il fulcro del problema.
I politici e la politica, dove si eleggono come rappresentanti del popolo degli inquisiti per frode fiscale, truffa, connivenza con la mafia, e ci si scanna per salvare un criminale pregiudicato; dove leggi come quella contro il conflitto d’interessi sono bloccate da vent’anni, e state tranquilli, anche con l’attuale governo non verranno messe nemmeno in programma, e intanto le leggi vergogna rimangono intoccabili; dove gli evasori riescono in gran numero a sottrarre al fisco miliardi di euro senza incorrere in alcuna sanzione.
E poi ci si meraviglia scoprendo che il più grande partito in Italia – che raggiunge il quaranta per cento dei consensi – è quello i cui elettori rifiutano di votare.
E a questo punto voglio chiudere ricordando un breve lazzo che ripeteva spesso Franca.
A proposito di Franca, come mi piacerebbe che fosse qui ad ascoltarci questa sera! Ecco la favola:
In una farsa antica Arlecchino si trovava sulla luna, da lassù guardava la terra, e puntando verso l’Italia si chiedeva: “Come si può salvare quella massa di incoscienti che si stanno distruggendo da soli?”. E Brighella gli rispondeva: “Bah, l’unica è ribaltolarli tutti...” “Che vuol dire ribaltolarli?” “Bisogna rovesciare tutta la baracca”.
E sia chiaro, non basta tentare di aggiustarla, mettere una toppa qua, una vite di là, una mano di colla e ritrovar fiducia nelle istituzioni.
Eh no, a ‘sto punto fiducia è morta con la speranza e l’ottimismo. Bisogna tirare il sipario e, dietro, cambiar scena completamente. Per far pulizia in un salone dove i topi e gli scarafaggi la fanno da padrone non basta chiamare una truppa di gatti che li sbranino, perché quel genere di topi, onorevoli, sono in grado di corrompere anche i gatti, tutti!
L’unica soluzione è buttar fuori quelli che hanno preso possesso di tutto il palazzo, e poi annaffiarli con pompe per l’incendio. E quelli che non ci riesce di ripulire si buttano tutti. Senza pietà. Sempre ricordando che noi siamo democratici, ma non moderati, per Dio!
Dario Fo
1 Dicembre 2013 - V3Day Genova