La censura è l’anima (nera) dello spettacolo


In questi giorni nei vari articoli apparsi sui quotidiani a commentare la censura di cui è stato vittima Daniele Luttazzi, si sono susseguiti a iosa termini come “buongusto”, “stile”, “opportunità”, “decenza”, “trivialità”, ecc..

All’istante, di contrappunto mi sono venute in mente caterve di espressioni e situazioni scurrili a dir poco feroci, impiegate da maestri storici della satira, a cominciare da Mattazzone da Calignano, grande giullare lombardo del XIII secolo, che, in un suo fabulazzo sulla lamentazione dell’uomo per la pena che Dio ha imposto a lui e alla sua femmina, elenca le fatiche e le mortificazioni nonché i continui flagelli e morbi a cui le creature umane sono sottoposte fin dalla creazione.

Il Padreterno si lascia convincere dalle invocazioni dell’uomo e, ipso facto, decide di creare a suo vantaggio il villano, che lo servirà “in ogni bisogna” al par d’uno schiavo. In quell’istante passa di lì un asino e il creatore con un gesto della sua mano santa lo ingravida.

Al nono mese, preannunciato da “un trempestàr treménno de fulmini e saiètte, de la panza de l’anemàl, travèrso el so’ cül de lü, sbotta de fòra ol vilàn spussénto, tüto empastào de merda sgaròsa e: stralak! 'Sto cül sforna criànte ol servànte criàt da Deo, ancor fumante, costretti a compiere gargarismi, trillando in gola secchiate di escrementi prodotti da animali fra i più fetenti.
E poi ancora vedo scorrere i milanesi longobardi sconfitti da Carlo Magno,

che un anonimo fabulatore descrive costretti dall’Imperatore a “nettar co’ la lengua l’arco treonfal, costruit da lori mismi a onor da lu venzedor franzoso. Sü l’arcon tüti i soldat de Carlo gh’hann pissat sovra per una jornada entera e anco smerdao con cüra. Das po’ a ognün de’ Longobard fue ordenat de catar rospi, ratti e pantegan de fogna, e cusinarseli per far gran banchetto.

I poverazz, boni cosiner con erbe parfumate, hann insaporit i boccon del pasto, engorgià tuto con gran fatiga e despo’ all’entrassat, tuto ch’avien magnat, gh’hann vomegado fora. L’emperador, desgostà, l’ha criat: ‘Ma cos’è ‘sta porcaria? No’ voi védar per le mee terre ‘sto vomegame! Lecadevelo subetamente e che tuto sia ben polido!’. Oh ch’el regal potestà!”.

Di certo si tratta di brani poco noti, che però Dante Alighieri ben conosceva per averli addirittura raccolti nel suo De Vulgari Eloquentia. Attraverso queste testimonianze, è risaputo, il sommo poeta, insieme ad altri autori che l’hanno preceduto, costruì il nuovo linguaggio, o Dolce Stil Novo, che ognuno di noi impara a considerare la base assoluta della nostra cultura.

Lo stesso Dante usa immagini similari per colorare di veemente indignazione la presenza di certi notissimi personaggi in cui incappa nell’infernale viaggio osceno. “A chi servirà quel buco vomitante fuoco?” chiede il tosco poeta a Virgilio. E quegli risponde: “Là dentro verrà fra poco infilato testa in giù, un Pontefice che ben merita di starsene a cottura lenta e le natiche al vento a sbattacchiar gambe al par d’un forsennato!”.

Quel Pontefice è nientemeno che Bonifacio VIII, quello che incarcerò, costringendolo a vivere incatenato tra le proprie feci, Jacopone da Todi che si era permesso di insultare il Santo Padre in questione urlandogli: “Ahi! Bonefax! Hai iogato ben lo munno! Ahi! Bonefax! Che come putta hai traito la Ecclesia!” cioè, come una puttana hai ridotto la Chiesa!

Oggi, si sa, nessun cardinale si permetterebbe di porre mano pesante su questi scritti... è questione di opportunità e stile... oggi!
Ma di certo vi farà sussultare di stupore scoprire che anche il santo giullare Francesco di Assisi spesso si lasciasse andare a espressioni di un linguaggio azzardato, per non dire sconveniente.

Infatti in una delle storie testimoniate da suoi seguaci, si racconta che un giovane discepolo un giorno si recò da lui disperato, sconvolto, giacché continuava ad apparirgli un orrendo demonio che lo tormentava con lusinghe e minacce, perché si lasciasse indurre nel peccato.

Francesco, dopo averlo ascoltato, da autentico giullare quale era, disse al suo tormentato fratello: “Sai che debbi fare? Quando verrà l’enfame demonio, tu digli spietato: ‘Veneme appresso che eo te abbranco per l’orecchi, ti vo’ a spalancà la bocca e in quella ci caco dentro tutto lo smerdazzo che me riesce d’emprignatte!’.

Così il giovine seguace repetette a lu demonio quella menaccia che Francesco li avea soggerita: ‘Te vo’ cacando in la bocca finché t’annego de merdazzo!’ Quello diavolo, preso de lo terrore, fuggì, annanno a sbatte contro rupi de le montagne che se sgretolaveno, come sotto tremmamoto, e tutto lo covertirno, seppellennolo per l’intero.”

È inutile sottolineare che di questa leggenda non si trova traccia nella versione ufficiale della vita di Francesco, quella riscritta quarant’anni dopo da fra Bonaventura da Bagnoreggio, eletto a generale dell’ordine dalla Chiesa di Roma, che censurò l’originale, anzi lo distrusse addirittura mandandolo alle fiamme.
Ma quello di mascherare le notizie e le testimonianze che danno impaccio alle elegie è cosa di tutti i giorni da sempre.

Al contrario spesso si scelgono bell’apposta, come nel caso di Luttazzi, le espressioni e i lazzi satirici palesemente scurrili e si mettono in bella mostra allo scopo di abbassare il livello di dignità dell’autore.
Conosciamo bene questa pratica davvero ipocrita e furbesca: ti si accusa di usare forme oscene di linguaggio per censurarti o addirittura eliminarti dalla scena.

A me e a Franca è accaduto con Canzonissima quando ci permettemmo di parlare di morti bianche sul lavoro e della mafia criminale. Nessuno, fino ad allora, sto parlando di quarant’anni fa, aveva mai trattato l’argomento. Anche in quell’occasione, fra le tante accuse, quali quella di buttarla in politica, ci si scaraventò addosso anche l’accusa di scurrilità e di non rispettare il comune sentire degli spettatori.

Luttazzi non a caso stava preparando una puntata sull’enciclica del Pontefice.
Come eliminarlo senza mettere in primo piano l’autentico soggetto?
Si fa la carambola: si spara su un bersaglio laterale per poterti di rimando colpire in piena fronte o, se volete, in piene chiappe.
A parte che un bersaglio come Ferrara, è così generoso, da non potersi sbagliare!
Esulta, mio caro Daniele! Così ti hanno eletto a classico della satira, e anche della letteratura! Complimenti!

Dario Fo