Spedizioni punitive e raid
La fuga di Teddy, il nigeriano che vuole salvare le prostitute
CASTELVOLTURNO (Caserta)- Teddy è andato via perché adesso sa cosa significa essere una boccetta. «Vogliono la tua sottomissione, gli interessa solo questo. Abbiamo provato a renderci utili. Ma a loro non interessa. Siamo schiavi, e tali dobbiamo rimanere». In un'intercettazione di 12 anni fa, uno dei tanti macellai dei Casalesi saluta il suo compare. Lo saluta dicendo che in serata magari se ne va a Castelvolturno «per giocare a boccette con i negri». Poche ore dopo, da una macchina in corsa parte una raffica di mitra contro tre extracomunitari che aspettavano l'autobus sulla Domiziana. «Siamo i loro giocattoli, ma fanno così perché sanno che agli altri italiani in fondo non dispiace ».
Il 19 agosto di quest'anno il nigeriano Teddy Egonwman e sua moglie Alice sono diventati birilli a casa loro. All'ora di cena un gruppo di quattro uomini si mise a sparare sulle finestre del container dove vivevano, ne sfondò la porta e continuò a fare fuoco anche dentro. Un'ottantina di colpi. Due giorni dopo, Teddy e la sua famiglia erano su una macchina diretta a Torino. Così finiscono le illusioni, da queste parti. I coniugi Egonwman si erano messi in testa di fare qualcosa. In modo confuso, arruffato, pasticcione. Ma ci avevano provato. Erano arrivati in Italia da clandestini, come tutti. Teddy trovò lavoro e permesso di soggiorno in un'azienda edile, Alice si buttò nell'import- export di oggetti africani. Lui fondò un'associazione per raccogliere tutti gli immigrati provenienti da Benin City. L'anno scorso aveva deciso di redimere le sue connazionali che lavorano in strada. Faceva addirittura le ronde, non risparmiava qualche schiaffone, alle ragazze a ai loro galoppini. «Non avevano capito che nulla deve e può cambiare. I "miei" e i "tuoi" non vogliono seccature».
A Castelvolturno Teddy era un personaggio così isolato da risultare addirittura patetico nei suoi sforzi. La spedizione punitiva fu bipartisan, nigeriani e casalesi d'accordo nel dare una lezione a un pesce piccolo che veniva considerato un traditore del suo popolo e metteva in crisi il patto tra mafiosi africani e Casalesi. «Volevo dare il mio contributo per liberare la Domiziana dalla prostituzione. Mi hanno urlato che ero un venduto alla Polizia. Mi hanno sparato. Nessun italiano mi ha dato solidarietà, perché un negro che cerca di darsi da fare deve avere per forza qualcosa di storto, no? Tanti saluti, allora». Quelli che restano però rischiano davvero di diventare boccette a disposizione di giocatori anfetaminici e fuori controllo, schiacciati da due poteri simili e alleati nel tenere oppressi i pochi che si muovono sulla linea di confine. «Le uniche vere comunità che ancora esistono sul territorio sono quelle criminali», ragiona un investigatore e le sue parole sono simili a quelle di padre Giorgio Poletto, il prete comboniano che da anni cerca di togliere le ragazze nigeriane dalla strada. «Non è mai stato così difficile. Abbiamo davanti un mare di persone anonime, con rappresentanti che sanno di non rappresentare nulla. La frammentazione li rende più deboli. Sono soltanto individui, alla mercé di un sistema criminale perfetto nella gestione del territorio. In una parola: schiavi».
La strage di Varcaturo rappresenta il disprezzo per i più deboli, quelli che si trovano in mezzo. Il simbolo di questa violenza «terrorista e razzista», come la definisce il magistrato Franco Roberti. La Spoon river delle vittime racconta di gente molto diversa dal prototipo dello spacciatore. Francis era felice perché due settimane fa aveva avuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico, dopo sei anni in Italia. Faceva il muratore e frequentava le associazioni di Caserta che si battono per i diritti degli immigrati. Elaj il sarto partecipava alle assemblee settimanali sui diritti degli immigrati, anche lui frequentava i centri sociali impegnati. Akej il barbiere è morto con 700 euro nei calzini. Stava andando a spedirli alla famiglia da quella sorta di Western Union non autorizzata che sorge accanto al locale della strage. Lavorava a Napoli, in un locale del centro. Nei locali devastati dai proiettili e nelle loro case delle sei vittime non è stata trovata droga. Puliti.
Marco Imarisio
21 settembre 2008