DARIO FO, GLI SGHIGNAZZI (DIPINTI) DI UN NOBEL

AL MAX MUSEO DI CHIASSO UNA RASSEGNA CON QUADRI, ARAZZI, COLLAGE E BOZZETTI PER RACCONTARE LA PASSIONE SEGRETA DELL’ATTORE E SCRITTORE

 

Pittura messa in scena. Come definire, altrimenti, l’esposizione di 200 opere, che Chiasso dedica a Dario Fo? Una scelta di olî, arazzi, collage, bozzetti (a cura di Marco Biscione e Nicoletta Ossanna Cavadini) esemplifica 65 anni di attività di uno straordinario genio poliedrico.

In realtà, a Fo qualsiasi definizione va stretta. Autore teatrale? Non basta. Attore? Insufficiente. Pittore? Limitativo. Forse, la definizione che più si avvicina al personaggio è la motivazione dell’Accademia svedese per il premio Nobel (1997): «Seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Ci siamo: eccoci dinanzi a un giullare che si esprime con linguaggi diversi. La pittura, quindi, non è che uno di essi.

Ma vediamo come ci arriva, anche perché Fo non fa parte del mercato dell’arte: non è legato a gallerie o a gruppi di potere che fanno il buono o il cattivo tempo e impongono un artista come la marca di una mozzarella. «Gli autori negano che io sia un autore. Gli attori negano che io sia un attore. Nessuno mi vuole nella sua categoria. Mi tollerano solo gli scenografi» dice Fo. Sul versante figurativo, egli ha tutti i titoli per essere anche pittore; basta affidarsi alla sua biografia. Prima di iscriversi ad Architettura al Politecnico di Milano, Fo (Sangiano, Varese, 1926) si diploma a Brera. I suoi maestri? Funi, Carpi, Marino e Manzù. Da eclettico, ha cercato i suoi riferimenti in tutta la storia dell’arte: dalla primitiva a quella greco-romana al ‘400, ‘500, ‘600 italiano e così via, sino ai contemporanei. Che, nel caso specifico, si chiamano soprattutto Picasso e Chagall («Il gusto del volo fantastico, del paradossale, del surreale, dell’impossibile»). Contrariamente a Montale («Scrivo, e poi leggo i critici per sapere cosa volevo dire»), Fo non è un autore da interpretare. È abituato a spiegare tutto, a non lasciare zone d’ombra. Precisa: «Dipingere è come recitare. Quando scrivo un testo e, d’un tratto, mi rendo conto che i personaggi non “quagliano”, che manca loro vigore o ritmo, prendo carta e penna e comincio a disegnare le immagini con i personaggi che raccontano l’azione». Quindi, dipingere diventa una necessità («Raccontare attraverso le immagini»), una strada per arrivare al completamento di un’opera teatrale: caratterizzare meglio un personaggio, definire un fondale, impostare la regia.

Tutto ciò permette a Fo di creare scene e costumi anche per opere altrui. Basta ricordare la Storia di un soldato di Stravinsky o Il barbiere di Siviglia di Rossini. Continua il rapporto osmotico fra pittura e teatro: l’una alimenta l’altro e viceversa. Il mondo della scrittura trova, nella tavolozza, un altro motivo di esistenza. A colori.

 

Di Sebastiano Grasso, Corriere della sera,  2 ottobre 2011